Non serve soffermarsi sulla natura clinica dello stato di malattia; basti dire che si tratterebbe di una forma irreversibile ed inguaribile con sopravvivenza stimata a brevissimo termine dalla diagnosi.
Ciò su cui si può ragionare è la spietatezza del mondo manageriale e finanziario che, di fronte alla malattia di un soggetto di vertice, fa crollare valori di azioni o titoli. La consapevolezza di questi meccanismi comporta per l'ammalato una doppia sofferenza, quella clinica e quella della clandestinità, fino al momento in cui quest'ultima sia possibile.
Ma, forse, si accompagna a ciò anche il tentativo umanamente comprensibile dell'ammalato di raccontare a se stesso una pietosa bugia, dandosi una speranza di vita, apparentemente confermata dal non riconoscere ancora per un po' negli occhi altrui lo sguardo della compassione.
Un secondo punto su cui riflettere, è l'apparente ingenuità di chi per un anno non si sarebbe accorto, stando a contatto quotidiano con la persona malata, del deterioramento dello stato di salute del collaboratore; se una persona fosse così ingenua o disattenta, potrebbe essere considerata adeguata a ricoprire cariche di vertice?
Ultima e più importante domanda: esiste il dovere di fare sapere agli altri che si è ammalati? Se lo si fa, la vita in compagnia della malattia diventa più facile o più difficile da sopportare? E' un dubbio sul quale tutti dobbiamo meditare, perché a certi appuntamenti chiunque può convenire.
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